CORSO BASE DI ICONOGRAFIA PER PRINCIPIANTI


CORSO DI ICONOGRAFIA A CATANIA

CARI FRATELLI E SORELLE...

Vi diamo il benvenuto nel Blog della nostra piccola Comunità presso la Cappella del Metochion

"San Serafino di Sarov"

Carissimo/a fratello/ sorella in Cristo Gesù, forse in questo momento ti senti solo/a ed incompreso/a, o se sei rimasto/a deluso/a da tante frasi o da delle persone a te care. Se nel tuo cuore avverti il bisogno che qualcuno ti stia vicino e preghi per te o per una persona amata, se hai dubbi spirituali, economici, familiari, ecc. e, pertanto sei confuso/a ed incerto/a, permettimi di dirti che Dio vorrebbe che tu capissi e accettassi la tenerezza e l’intensità con cui Egli ti sta cercando. Egli ci invita ad affidare i nostri conflitti alla sua comprensione, le nostre sofferenze al suo amore, le nostre ferite alla sua capacità di guarire, la nostra debolezza alla sua forza, il nostro vuoto alla sua pienezza.
Egli non ha mai deluso chi si è affidato a Lui.
«Quelli che lo guardano sono illuminati, nei loro volti non c’è delusione» - Salmo 34: 5”.
Se desideri che la nostra piccola Comunità preghi per te, o vuoi ricevere una parola di conforto, o vuoi venire a pregare insieme a noi, scrivici!

La Comunità si incontra ogni Sabato alle ore 18.00 presso la Cappella privata del Parroco

Dio ti Benedica con il Suo grande Amore!



Esichia

Esichia, rinuncia di sé e grazia di Dio

L’esicasmo ha sempre avuto, soprattutto in Occidente, numerosi avversari. Non avendone mai fatto l’esperienza, essi traggono conclusioni in maniera astratta, giungendo fino a qualificare questa forma di preghiera come un comportamento meccanico, cioè una tecnica spirituale che ci guida alla contemplazione di Dio. Ma senz’alto esso non è nulla di ciò.
Nella sua assoluta libertà, Dio non è condizionato da alcuna causa e non è sottoposto ad alcuna costrizione. L’esichia (o preghiera del cuore) esige invece una totale rinuncia di se stessi, compreso il “diritto” al successo della propria opera ascetica. Ed è solo la decisione d’accettare una simile sofferenza per meglio osservare i comandamenti che, di fatto e non per diritto, attrae la grazia di Dio, e solo se questo sforzo viene compiuto con uno spirito di umiltà.
Un orgoglioso non giungerà mai alla vera unione con Dio qualunque sia il mezzo che usa. L’aspirazione umana – in quanto tale – è impotente ad unire la mente all’abisso del cuore; ed anche se l’uomo vi giunge da solo, vi penetrerà solo fino a un certo punto, e non vedrà che se stesso, la sua bellezza creata – senz’altro sublime in quanto fatta a immagine di Dio, – ma non vi troverà mai Dio.
Il beato staretz [Silvano del monte Athos] ricorse allora, in questa lotta per l’umiltà, ad un’arma di fuoco, a quel comando che gli era venuto da Dio “Mantieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare”.
Ma quest’uomo – tutt’altro che un letterato: un “semplice”, un “ignorante” – ha conosciuto molto volte lo stato della pura contemplazione di Dio. Aveva dunque buoni motivi per dire: “Se la tua preghiera è pura tu sei teologo”; o ancora: “Sulla terra ci sono molti credenti, ma rari sono coloro che conoscono Dio”.
Per conoscenza non intendeva le teorie gnostiche, né le speculazioni teologiche, ma l’esperienza della viva comunione, l’esperienza della reale unione con la Luce divina.
La conoscenza è co-esistenza, cioè comunione nell’esistenza.



«Fuge, Tace, Quiesce: Fuggi, Taci, Riposa». La fuga dal mondo, il silenzio e la pace interiore sono i tre atteggiamenti che danno forma allo stato di vita del monaco, in particolare dell' anacoreta.

Fuge:      esichia come solitudine
  Il     monaco autentico è chiamato a vivere prima di tutto la solitudine. I Padri del deserto, sottolineano con grande forza la fuga dagli uomini, la necessità cioè di ridurre al minimo il contatto con essi. Si racconta in proposito: «Il beato arcivescovo Teofilo, si recò una volta dal padre Arsenio in compagnia di un magistrato. Chiese all'anziano di udire da lui una parola. Dopo un attimo di silenzio, egli rispose loro: "E se ve la dico, la osserverete?". Promisero di farlo. Disse loro l'anziano: "Dovunque sappiate che ci sia Arsenio, non avvicinatevi"»(Àrsenio 7).
«Il padre Marco disse al padre Arsenio: "Perché ci sfuggi?". L'anziano gli dice: "Dio sa che vi amo. Ma non posso essere contemporaneamente con Dio e con gli uomini. Le schiere celesti che sono migliaia hanno un'unica volontà, mentre gli uomini ne hanno tante. Perciò non posso lasciare Dio per venire dagli uomini"» (Arsenio 13).
  Alcuni contatti discreti con il mondo possono  essere anche vantaggiosi. Tuttavia solo per quei monaci che hanno acquisito una grandematurità spirituale e ai quali è comandato espressamente da Dio. Ma per lo più il monaco è invitato a garantirsi una zona di calma, di silenzio, di solitudine per ricevere la formazione da parte di Dio e abituarsi alla sua silenziosa presenza.
L'esichia come solitudine non vuol dire solo fuga dal mondo, ma indica pure una certa stabilità in un determinato luogo solitario. Questa esigenza è espressa con un famosa formula che poi è divenuta tradizionale: «Rimani nella tua cella, resta nel tuo eremo, ed essa tiinsegnerà ogni cosa» (Mosè 6). «Insegnerà ogni cosa» è la stessa frase che troviamo in bocca a Gesù quando preannunzia la venuta dello Spirito (Gv 14,26). Rimanere nella solitudine della cella è allora apertura allo Spirito, al suo fuoco e alla sua luce. L'abbà Macario l'Egiziano lega insieme la fuga dagli uomini e il restare in cella: «Il padre Isaia chiese al padre Macario: "Dinnni una parola". E l'anziano gli dice: Fuggi gli uomini! ,. E il padre Isaia a lui: "Che cosa,significa fuggire gli uomini?". L'anziano gli disse: "Significa rimanere nella tua cella e piangere i tuoi peccati" » (Macario E. 27).
E rivolgendosi all'abbà Aio gli dirà: «Fuggi gli uomini, rimani nella tua cella a piangere i tuoi peccati, e non amare la conversazione con gli uomini. Eti salverai» (Macario E. 41).
Infatti la celia è l'ambiente per l'esichia, dirà lo stesso Antonio il grande: «Come i pesci muoiono se restano sulla terra secca, così i monaci che si attardano fuori della cella o si trattengono con la gente, perdono la forza necessaria all'esichia. Come dunque il pesce al mare così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro» (Antonio 10).

La solitudine può esprimersi pure in un atteggiamento di continuo pellegrinaggio da un luogo ad un altro. Ogni luogo infatti deve essere estraneo al monaco. Una tale estraneità - xenitèia - indica una sorta di esilio volontario lontano dalle cose mondane. Afferma san Nilo: «Il primo dei grandi combattimenti consiste nella xenitèiacioè nell'emigrare solo spogliandosi come un atleta, ,,della propia patria, della propria razza, dei propri beni». Il passare da un luogo ad un altro è imitare il cammino di Gesù, come dimostra la storiella seguente:
«Del padre Agatone raccontavano che impiegò molto tempo assieme ai suoi discepoli per costruire una cella. Quando l'ebbero finita, cominciarono ad abitarvi, ma già dalla prima settimana vide qualcosa che gli pareva non giovasse e disse ai suoi discepoli: "Alzatevi andiamo via di qui" (Gv 1,3l). Ne furono molto turbati e dissero: "Se proprio avevi l'intenzione di andartène perché abbiamo tanto faticato per costruire la cella? La gente si scandalizzerà di nuovo e dirà: Ecco, questi instabili, che se ne vanno di nuovo". Vedendoli così avviliti, egli disse loro: "Se anche alcuni si scandalizzeranno, altri, a loro volta, saranno edificati e diranno: Beati costoro che per amore di Dio se ne sono andati disprezzando tuttoComunque chi vuole venire venga. Io adesso vado. Allora si  gettarono a terra, pregando che permettesse loro di partire con lui» (Agatone 6; cf. anche Amoe 5).

Questi ultimi apoftegmi ci permettono di sottolineare l'aspetto itinerante della esichia. Certamente la cella è importante; ma non si può rimanere in essa con lo spirito del proprietario. Il monaco sa di essere straniero su questa terra e così abbahdona tutto ciò che può distoglierlo dal servizio di Dio, vivendo nel nascondimento e nell'attesa, sperando ardentemente nel ritorno del Signore glorioso. La solitudine esteriore è certamente importante, ma più necessaria è la solitudine del cuore. Qui si gioca l'autentica esichia, ovvero l'eremitismo o l'anacoresi interiore, il monachesimo del del cuore, il solo che può condurre alla Preghiera di Gesù.

Tace:      esichia come silenzio
  Nella solitudine il monaco è chiamato a vivere il silenzio. La voce che Arsenio aveva udita si era infatti espressa nei termini che sappiamo: fuge, tacequiesce.
Il silenzio che esprimono i Padri del deserto, come giustamente è stato detto, «è un silenzio dai mille nomi e dai mille volti dove ogni cosa è al suo posto, è un silenzio prezioso per l'anima, un silenzio che sta dalla parte della trascendenza. Dai vari apoftegmi emerge che il silenzio dei Padri del deserto è il silenzio dell'umiltà, del tacere di se stessi, è il silenzio che toglie le parole all'egoismo, alla superbia, all'amor proprio, è il silenzio di chi si fa pellegrino e straniero, ma è anche il silenzio dell'amore, il silenzio di chi non giudica il prossimo, di chi non parla o sparla degli altri, infine è il silenzio della fede, di chi si fida del Totalmente Altro, di chi si è messo completamente nelle sue mani».
Consideriamo alcuni particolari di questo grande silenzio.
La preghiera perpetua è il problema pratico fondamentale che viene dibattuto molto nei primi secoli cristiani. I monaci avevano il dovere di realizzare questo comando della Scrittura, più di tutti gli altri cristiani. Il loro amore per il silenzio è senz'altro la forma, il clima, la dialettica stessa della preghiera ininterrotta
Il silenzio è come una cella e una sorta di eremo portatile da cui l'uomo di preghiera non uscirà mai anche quando per motivi di carità, dovrà andarsene dalla sua cella visibile. Afferma il grande Poemen «Se tu sarai nel silenzio  tu otterrai il riposo in qualsiasi luogo abiterai»(Poemen 84).
Custodire il silenzio, quando si presenta l'occasione di parlare, è la vera fuga dagli uomini: «Dominare la propria lingua ecco la vera estraneitàxenitèia -», afferma abbà Titoes;(veD 84).
  «Il padre Giovanni era fervente nello Spirito. Venne un tale a visitarlo e lodò il suo lavoro: stava lavorando alla corda, e rimase in silenzio. Tentò una seconda volta di farlo parlare, ma egli continuava a tacere. La terza volta disse al visitatore: "Da quando sei venuto qui, hai allontanato da me Dio"» (Giovanni Nano 32).  
«A Scete il grande abbà Macario, quando si scioglieva l'assemblea, diceva: "Fuggite, fratelli". Uno degli anziani gli chiese: "Dove possiamo fuggire di più che in questo deserto?" Egli poneva il dito sulla bocca dicendo: "Questo fuggite!" e entrato nella sua cella, chiudeva la porta e si sedeva (si poneva in esichia)» (Macario E. 16).
  Il   silenzio a cui invitano i Padri del deserto è  anche testimonianza. Secondo la loro esperienza è necessario parlare con le opere e non con la lingua. E il proprio cammino di fede che opera, le parole sono spesso inutili.

«Un fratello chiese al padre Sisoes: "Dimmi una parola". Gli disse: "Perché mi costringi a parlare inutilmente? Ecco, fa' ciò che vedi"» (Sisoes 45).
«Un fratello chiese al padre Poemen"Dei fratelli vivono con me; vuoi che dia loro ordini?". "No - gli dice l'anziano - fa' il tuo lavoro tu, prima di tutto; e se vogliono vivere penseranno a se stessi". Il fratello gli dice: "Ma sono proprio loro, padre, a volere che io dia loro ordini". Dice a lui l'anziano:"No! Diventa per loro un modello, non un legislatore"» (Poemen 174).
L'abate Isaia disse ancora: «Non deve essere la tua lingua a parlare, ma le tue opere, e le tue parole siano più umili delle tue opere. Non pensare senza intelligenza, non insegnare
senza umiltà, affinché la terra possa ricevere il tuo seme».

I frutti del silenzio secondo i Padri del deserto sono molteplici. Il silenzio dona la quiete (Poemen 84); genera la castità (Detti V,25); è di aiuto contro gli empi (Detti XI, 7); conserva l'animo nella pace (Matoes 11); il silenzio è umiltà (Detti XV,76); il silenzio aiuta a non giudicare il prossimo, a non condannare nessuno, è rimedio contro la maldicenza; è scuola di tolleranza e benevolenza verso tutti(Ammone 8).
Tuttavia un tale silenzio richiede molto coraggio. Afferma Poemen«La prima volta fuggi, la seconda fuggi, la terza diventa una spada» (Poemen140).

  Quiesce:       rimani nella pace interiore

Solitudine e silenzio praticati concretamente, rappresentano dunque per i Padri del deserto, il momento fondamentale dell'esichia del corpo, dell'esichia esteriore. Una quiete che seppure esterna è fondamentale. Infatti, come afferma Macario: «Nessuno può avere l'esichiadell'anima, se non si è assicurato dapprima quella del corpo».
Certamente però è 1' esichia interiore il cardine essenziale della spiritualità monastica orientale. Dalla solitudine e dall'assenza di parole il monaco è chiamato a passare al silenzio profondo attivo e creativo. E questo è tutt'altro che quietismo. Al contrario è «ricerca della sola quiete possibile, che è la pace di Cristo, la pace esultante di Dio nel fondo del cuore».
Il monaco si consacra per vocazione a perseguire unicamente l'unione con Dio, attraverso la preghiera, che a sua volta presuppone il totale distacco, la perfetta purificazione, la rinuncia a tutto ciò che potrebbe rallentare il suo cammino spirituale.
I Padri del deserto «hanno spesso ricordato che Gesù, anche dopo il primo ritiro nel deserto, ha spesse volte cercato la solitudine. La solitudine pone dunque il monaco al centro stesso del mistero della redenzione, in una configurazione al Cristo che tocca l'apice più doloroso, ma anche il più fecondo della sua opera di salvezza. In, questo modo il legame tra solitudine e preghiera prolungata, estasi e sofferenza viene solidamente affermato»  
La ricerca cristiana della solitudine, del silenzio e della pace interiore potrebbe anche apparire una sofisticata spinta egoistica. Ma non è così. «Consacrare interamente la propria vita terrena perché Dio sia tutto in tutte le cose è precisamente l'opposto dell'egoismo. E partecipare nel modo più generoso possibile, dopo il martirio, alla grande opera di Dio amore» .

San serafino di Sarov

San serafino di Sarov
Salva, o Signore, ed abbi pietà degli anziani, dei giovani, dei poveri, degli orfani e delle vedove, dei disadattati, dei sofferenti, dei malati, di coloro che sono nel dolore, nelle difficoltà, nelle afflizioni, di coloro che sono rinchiusi nelle prigioni e nei luoghi di detenzione, ed innanzitutto di coloro che sono perseguitati per il tuo nome e per la fede. Ricordati di tutti loro, visitali, fortificali, dona loro presto, per la tua gloria, libertà e liberazione.